Brevi riflessioni a margine della sentenza C. Cost. n. 242/2019 sull’aiuto al suicidio: dubbi e possibili conseguenze.Ad un volto che è quello di una modernità che ha fiducia nella capacità della ragione di conoscere il giusto e il buono, e quindi anche dare lume alla strada della libertà di ciascuno di noi, si affianca un volto nichilista e relativistico, secondo cui non esistono valori intersoggettivamente vincolanti: ciascuno ha il diritto di perseguire la propria felicità come preferisce, ed ecco quindi aprirsi le porte per un individualismo edonista che fa convivere la felicità con il benessere psicofisico e quindi non tollera l’idea che l’essere umano possa soffrire. È probabilmente questa la ragione ispiratrice della Corte d’Assise di Milano, che in relazione alla vicenda di Dj Fabo e alla fattispecie del suicidio assistito, nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, poneva in dubbio il carattere di sacralità e indisponibilità della vita, suggerendo che si trattasse di una conseguenza della visione dei rapporti tra l’individuo e lo Stato tipica del periodo dell’entrata in vigore del Codice penale e, in particolare del principio di subordinazione del primo rispetto al secondo.
La Corte Costituzionale con la sentenza numero 242 del 2019, pur avendo respinto le argomentazioni del giudice milanese quanto al riconoscimento di un diritto al suicidio, è parzialmente intervenuta sul carattere di indisponibilità della vita, aprendo una porta (anche se tutto sommato angusta) alla declinazione più estrema del principio di autodeterminazione individuale. E, infatti, per escludere la punibilità di chi aiuta taluno nell’intraprendere un percorso volto a porre fine alla propria vita, la Corte ha ritenuto sufficienti come condizioni la capacità di prendere decisioni liberamente, la soggezione ad un trattamento di sostegno vitale, una patologia irreversibile dalla quale discendono sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili dal malato.
Dette condizioni e le modalità di esecuzione devono essere verificate presso una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico competente. Considerato quanto detto, e preso atto delle garanzie indicate dalla Corte Costituzionale per lo svolgimento del percorso per il suicidio assistito del malato, le zone grigie di questa sentenza sembrano essere diverse, ma quelle sulle quali vale la pena interrogarsi in particolare sono due: in primo luogo in che modo può incidere l’alternativa tra le sofferenze fisiche e psicologiche? Secondo poi fino a che punto un uomo può ritenersi libero di scegliere, se condizionato da un dolore fisico o psicologico da lui ritenuto intollerabile? Al di là di queste tematiche, non irrilevanti, la strada aperta dalla sentenza della Corte appare, se non altro praticamente, di non facile percorribilità, al punto da dubitare dell’effettivo riscontro che avrà nei fatti. Sembra quindi lontana, almeno per il momento, la possibilità che nel nostro ordinamento si possa arrivare a pericolose derive come quelle di altri Stati membri dell’Unione Europea, che in alcuni casi più estremi hanno facoltizzato il suicidio assistito per dementi, depressi e disabili. Per un cattolico, oltre al dovere di non “abbassare” mai la guardia contro il relativismo, resta l’amarezza di vedere riconosciuta una vita dolorosa, o anche una parte di essa, come indegna di essere vissuta, come se il dolore non costituisse una prova per noi stessi, e come se nel dolore non fosse possibile affermare l’indiscutibile dignità dell’uomo.
di Gabriele Genovese