Perché interrogarsi sul concetto di autorità in relazione alle tante contraddizioni del mondo contemporaneo? Appare innanzitutto necessario distinguere nel caso della civiltà occidentale di una eclissi, piuttosto che di una semplice crisi del concetto di autorità. A partire, infatti, dagli anni ’60 al concetto di autorità si è innestata una nuova connotazione del termine del tutto negativa, da intendere tout court come forma di repressione nei confronti delle libertà degli individui.
Il concetto di autorità ha perso progressivamente ogni riferimento con la sua radice originaria di evidenza, di fondamento (Grund in tedesco), capace, dunque, di dare orientamento e basi solide all’intera realtà umana, venendo, invece, confusa colpevolmente con il concetto di mero potere coercitivo.
Ma quali sono le ricadute sul piano politico e sociale di un fenomeno ormai così radicato dal XX secolo fino ai giorni nostri? Con il grande tornante neo-liberale post-1989, si è assistito sostanzialmente ad un grande ridimensionamento – se non addirittura declassamento – degli spazi della categoria del politico, perché sempre più delegittimato dalla sua presunta incapacità di soddisfare le richieste incessanti di maggiori libertà e di diritti delle società post-industriali.
Al venir meno del principio di responsabilità e rappresentanza politica, si è affermato, invece, con crescente convinzione il principio di competenza, in quanto unico criterio capace di ristabilire una parvenza di autorità. Tutto questo apre ai giorni nostri non pochi dubbi sulla tenuta – almeno per come li abbiamo conosciuti – dei regimi liberal-democratici occidentali, perché élites irresponsabili e politiche demagogiche cominciano ad entrare fatalmente in collisione.
Il caso italiano, in tal senso, è emblematico. In Italia il potere politico è destrutturato, privo dei centri decisionali indispensabili per orientare con efficacia l’azione dello Stato sia all’interno che all’esterno. Ai giorni nostri gli unici luoghi di reale decisione “politica” sono istituzioni intrinsecamente tecnocratiche: Direzione generale del Tesoro – tornata prepotentemente alla ribalta grazie alla ormai ben nota biografia del Presidente del Consiglio Draghi – Corte Costituzionale e Consiglio di Stato.
Proprio a questa perversa dinamica decisionale è legata la seconda debolezza strutturale italiana: l’incapacità di produrre un ceto di governo nel lungo periodo. La conclusione della “prima Repubblica” ha determinato la defenestrazione della propria classe politica e dei partiti tradizionali; il trattato di Maastricht e l’ingresso nell’euro hanno fatto perdere centralità alla Banca d’Italia; una cattiva gestione pubblica e privatizzazioni poco concorrenziali hanno, infine, smantellato il modello dell’economia mista del secondo dopoguerra italiano.
I filtri funzionali attraverso cui si selezionava la classe politica, amministrativa e giudiziaria sono saltati con la slavina giudiziaria di “Mani pulite”, che di fatto spazzò via un’intera classe politica, che pur con tutti i suoi difetti e limiti, aveva garantito all’Italia una stagione senza precedenti storici di sviluppo e consolidamento del proprio ordinamento democratico. E il paese è stato incapace di sostituire tali filtri con altri come università, scuole d’eccellenza, carriere pubbliche d’alto profilo. La crisi italiana è stata analizzata da un punto di vista prettamente economico e riconducendola a problemi di finanza pubblica.
In realtà, se si mettono in fila fatti ed eventi storici è evidente che i problemi più gravi per il paese siano l’incapacità di produrre una élite, in particolare modo nel settore pubblico, e di costruire un establishment coeso e ordinato, cioè capace di gestire con lungimiranza e saggezza i vincoli esterni. In tal senso, torna alla mente ciò che raccomandava il cardinal Richelieu nel perseguimento dell’interesse prevalente dello Stato, ovvero ciò che si vuole ottenere e la forza con cui lo si otterrà dovranno trovarsi in proporzione geometrica.
di Gian Marco Sperelli
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