La pandemia Covid-19 si è inserita in uno scenario già di per sé non roseo per la cultura occidentale in generale e per l’Italia. Oltre che sulle conseguenze economiche, per non parlare di quelle sociali, causate dal dramma che stiamo vivendo, l’attenzione deve focalizzarsi anche sulle altre grandi fragilità che ci attanagliano, come la denatalità, la crisi del rapporto intergenerazionale, la disomogeneità della ricchezza sul territorio nazionale e rischi di colonizzazione predatoria delle nostre imprese.
Se è vero, come diceva Churchill, che “non bisogna mai sprecare una crisi”, è opportuno immaginare (o quantomeno auspicare) che il nostro paese, con una guida salda, intraprenda una strada di serio e chiaro rinnovamento.
Una guida salda presupporrebbe, tuttavia, un sistema istituzionale forte che, anche nei momenti di crisi, possa ottemperare ai propri doveri. Se consideriamo uno Stato che ha visto, in circa 10 anni, l’alternanza di 6 governi diversi, la totale delegittimazione dell’organo legislativo, la scomparsa nei partiti delle logiche dialettiche in favore di quelle di personificazione ad immagine dei leader, la prospettiva non è confortante.
Tanto considerato, qual è, quindi, la chiave del rinnovamento? Oltre ad una stagione di riforme, che parta da basi solide per garantire effettività della rappresentanza territoriale e governabilità, lo Stato e il popolo italiano devono ripartire dalle proprie radici: questo significa, in primo luogo, concepire i confini e l’interesse nazionale non come barriera, ma come identità e responsabilità. Secondo poi, comprendere e sfruttare le risorse, soprattutto umane, attraverso il dialogo tra generazioni differenti. Infine, ripartire dall’istruzione, dalla ricerca e dalla capacità di informazione; proprio quest’ultima che nella sua forma più abietta, dovuta alla crisi sistemica del giornalismo, aumenta sempre di più il divario tra governati e governanti.
Guardare alle proprie radici non vuol dire chiudersi in sé stessi, ma considerare il paese come un’entità specifica, formata dalle sue tante comunità, che si pone all’interno di una rete internazionale fatta di relazioni più o meno intense. Non bisogna dunque dimenticare il ruolo che l’Italia ha all’interno del contesto europeo, né quello, altrettanto importante, che svolge per tutto il mondo occidentale. È necessaria però una riflessione sui risultati che la globalizzazione sfrenata ha portato, acuiti dalla pandemia in corso.
Questa riflessione è necessaria, in politica tanto quanto nella società civile, per poter permettere alle imprese di competere all’interno di un capitalismo che sia davvero sostenibile. Da un lato dunque garantire che la pressione fiscale e il garantismo nei confronti dei lavoratori non rappresentino una barriera invalicabile, come oggi in molti casi accade. Dall’altro impedire che una competizione ad armi impari impedisca agli imprenditori di portare avanti la propria attività, sul territorio nazionale e non solo.
In questo modo sarebbe davvero possibile ricominciare a correre, tornare ad attrarre, ed a mantenere in casa, i talenti e fornirli soprattutto, compito dell’istruzione a partire dalle scuole medie, di tutti gli strumenti necessari per fare la differenza in un mondo digitale.
di Gabriele Genovese e Giuseppe Punzi